Nel regno di Maurizio Marzadori.
Conoscete già Maurizio Marzadori?
Perchè dovreste?
Beh, iniziamo col dire che se state leggendo queste righe forse qualcosa di lui già sapete.
Senz’altro saprete che in via delle Moline a Bologna, e più precisamente all’interno del suggestivo ex chiostro cinquecentesco - opera di Giovanni Brensa da Como - penetrabile oggi varcando il numero 14 C, si trova Freak Andò: rinomato negozio di antiquariato, modernariato e design di cui Marzadori è fondatore e dove di fatto è espressa buona parte della sua straordinaria dote di connoisseur ed esperto di design d’arredo.
In questo negozio, aperto nel 1996 dopo un attento restauro conservativo promosso dal suo proprietario, con straordinario eclettismo si alternano posate e servizi in alpacca da hotel e navi di Giò Ponti della ditta Knupp Milano, dinamici ombrellini futuristi, un angolo bar anni ‘50 dell’architetto Paolo Buffa, una credenza con cariatidi del ‘500, e oggetti rari o non in vendita come giocattoli e mobili da bambino.
Si, perchè Maurizio Marzadori non è soltanto un antiquario esperto e un arredatore sofisticato ma per sua sfortuna è anche un collezionista compulsivo.
Di cosa?
Innanzitutto di mobili da bambino per la casa e per la scuola, e poi di giochi, materiali didattici, riviste, complementi d’arredo e vestiti dalla fine dell’800 agli anni ‘70 del secolo scorso, che insieme disegnano la storia del design per l’infanzia e raccontano i mutamenti sociali, culturali e pedagogici di un secolo d’Italia. In parte ossessione, in parte reminiscenza della sua vita precedente di maestro di scuola. Una collezione privata unica che vanta alcune migliaia di pezzi di autori e aziende del calibro di Giò Ponti, Giuseppe Terragni, Bruno Munari, Antonio Rubino, Giuseppe Pagano (nato Pogatschanig), Alessandro Marcucci, Cova, Helen Konig-Lenci, l’Opera Nazionale Balilla, e Maria Montessori, per citarne alcuni. Negli anni è stata ospitata in prestigiose istituzioni italiane e internazionali come il MoMA di New York e la Triennale di Milano, e oggi è in cerca di una sede permanente dove poter essere curata, esposta, fruita, e divulgata secondo un percorso di formazione, ricerca e sperimentazione sul children design e l’infanzia.
E poi c’è la collezione di design e arredo razionalista italiano.
Una collezione ancora in fieri con interessanti margini di studio e ricerca, che conta già centodieci lotti e circa duecento pezzi, e le firme di autori come Terragni, Levi-Montalcini, Mucchi, Pagano (nato Pogatschnig), Figini e Pollini per le ditte Pino, Cova, Columbus, Calligaris, tra le altre.
Un magazzino ai confini del tempo.
Eppure non sembrano esaurirsi qui gli “argomenti” di Maurizio Marzadori che anzi proprio fuori città presso lo storico magazzino di quel negozio, ci offre forse il suo contributo più personale e stravagante. In questo “bazar da duemila metri quadrati, croce e delizia di ricercatori, mercanti, scenografi, architetti e clienti che intendono fare un buon affare”, per citare le sue stesse parole, e “dove albergano oltre cento autori tra cui Hoffmann, Wagner, Basile, Mucchi, Zanuso, Albini, Sottsass e molti, molti altri”, si sviluppa un percorso fatto di passaggi stretti e tortuosi, tra il dentro e il fuori, tra gli ambienti della casa colonica, gli alti capannoni e il giardino che tutto cinge, avviluppa e rigetta secondo una sequenza di apparizioni e rivelazioni che non avrebbero sfigurato in una Esposizione Internazionale Surrealista.
Scale di ferro che non portano da nessuna parte, readymade che attendono (invano?) di tornare a essere semplicemente scolabottiglie.., letti senza letto, vasche da bagno in marmo e preziosi sanitari - intorno ai quali si sono consumati corpi e vite - contrassegnano l’ampio giardino tra selvatiche infestanti, glicini enormi ma anche meli, prugne, rusticani, fichi, platani e dio solo sa quali altre piante, giacendo in uno stato di abbandono di cui è lecito sospettare nuovi significati e riferimenti prima ignorati.
Marzadori sembra fare eco alle parole del designer Gianni Pettena che in una intervista di qualche anno fa affermava l’importanza di coltivare costantemente una parte del proprio cervello “a verde”, intendendo anche di dover mantenere un filo diretto, nella propria vita, con la propria infanzia, con la propria spontanea maniera di esprimersi.
E non sono da meno le suggestioni percepite negli ambienti interni, siano essi gli spazi contigui al corpo centrale della casa tra antiche voliere in legno e manichini; che negli alti capannoni, dove il vento quando fuori soffia, seppure leggero, si insinua tra mobili e sedie impilate producendo suoni simili a voci sussurrate come in una installazione di Christian Boltanski.
Tra questi spazi interstiziali in continua trasformazione si sono aggirati - o chi per loro - artisti, scenografi e registi di fama internazionale come Michelangelo Antonioni, Wim Wenders, Wes Anderson, Marco Tullio Giordana, Giancarlo Basili, Ragnar Kjartansson, e lo stesso Boltanski, tra gli altri; ma anche anonimi impresari cinematografici e clienti di ogni tipo, ognuno con una particolare idiosincrasia, ognuno protagonista o vittima di una storia - talvolta esilarante altre volte tragicomica - di cui Marzadori conserva memoria, e che sarebbe interessante raccogliere prima o poi in un qualche modo, ad esempio nella forma di una biografia immaginaria (ma neanche tanto) del Signor Freak Andò.
Sebbene distanti tra loro per formazione, esperienza e professione, ad accomunare i sei autori d'eccezione di Ombre, Strappi e Presenze è l'attrazione insanabile nutrita per il medesimo soggetto - un magazzino ai confini del tempo ubicato nella campagna metafisica bolognese - e dalle infinite variazioni offerte dal modo in cui ciò che lo “abita” può essere variamente rivendicato attraverso lo sguardo fotografico. Gino Bosa, artista; Ennio D'Altri, fotografo; Corrado Fanti, docente di filosofia; Andrea Maioli, giornalista; Joe Nemeth, mercante; e Maurizio Marzadori, collezionista si misurano difatti con un luogo unico e straordinario attraverso la pratica fotografica, confrontandosi con la sua apparente irriducibilità in immagini fotografiche.
Mi riferisco ai dettagli tanto intimi e familiari quanto provvisori degli ambienti interni su cui si sofferma Bosa, ma anche a quelli dal sapore kitsch impressi sulle grafiche dei teli protettivi di cui è punteggiata l’area esterna. Oppure alla “presenza” sensuale che si aggira nelle foto di D’Altri, la cui identità va forse ricercata nella naturale dimensione di “fluidità” creativa, anarchica - e perchè no - scatologica di questo luogo. Così come alle “risonanze” con certe opere di pittura astratta suggerite da Fanti attraverso buchi, fessure e pieghe prodotte nella sovrapposizione ancora una volta di teli, stavolta nella loro variazione monocroma.
Penso poi alle tante vite ai successi e ai fallimenti agli entusiasmi e alle delusioni senza tempo dietro scritte ossidate o schiene chinate su lampade oramai spente come negli scatti di Maioli. E penso infine all'“inventario” di Nemeth che include anche quegli oggetti collezionati e talvolta “riepensati” da Marzadori secondo un'idea di rivalsa ludico-poetica dell'oggetto danneggiato, corrotto, sconfessato; oppure - come testimoniano proprio le sue foto - attraverso la documentazione di interventi di contro-antropomorfizzazione spontanea (o da questi semiconsciamente indotta) in atto all'interno del parco. Interventi che mi pare smascherino in modo tanto delicato quanto efficace pregiudizi, superstizioni e deliri vari di onnipotenza della nostra specie.
A proposito di superstizioni, conoscete già la storia della carrozza del Signor Ko?
No?
Forse è ora di una visita da Freak Andò.
Fine.
Valerio Borgonuovo è docente di Storia dell’Arte, curatore di progetti editoriali ed espositivi, autore di saggi, articoli e interviste, project manager e ricercatore indipendente. Il volume Global Tools 1973-1975 Quando l’Educazione coinciderà con la Vita, co-curato per le Edizioni Nero di Roma, è stato insignito del riconoscimento di “migliore libro d’arte e cultura visuale del 2018”. Attualmente lavora a un libro incentrato sull’esperienza drammatica ma cruciale nella vita di Carlo Carrà quando nel 1917 – come soldato tra Bologna e Ferrara - il pittore futurista e convinto interventista, in seguito a un suo ricovero per nevrosi, incontra Giorgio De Chirico e realizza alcune tra le più significative e universalmente note opere di pittura “metafisica” (Riconciliarsi con Carrà. Carlo Carrà soldato nel 1917).